Riduzione orario di lavoro. Necessario il consenso del lavoratore

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Cassazione: volontà del lavoratore nella riduzione di orario

Con sentenza n. 16089 del 14 luglio 2014, la Cassazione ha affermato che la regola secondo la quale gli accordi collettivi sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, sebbene non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, non vale nell’ipotesi di trasformazione dell’orario di lavoro da tempo pieno a tempo a tempo parziale ex art. 5 del D.L.vo n. 61/2000 in quanto tale trasformazione non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro.

 CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 luglio 2014, n. 16089

Lavoro – Trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale – Determinazione unilaterale del datore di lavoro – Consenso scritto del lavoratore

Svolgimento del processo

1. -La sentenza attualmente impugnata (depositata l’8 febbraio 2007) conferma la sentenza n. 3131/05 con la quale il Tribunale di Milano ha respinto le domande di M.C., P.M., G.P. e S.S., dirette all’accertamento, nei confronti del G.G. s.p.a., dei rispettivi diritti al mantenimento dell’orario di lavoro che veniva applicato dalla precedente datrice di lavoro P s:p.a. cui il G.G. era subentrato nell’appalto di servizi di pulizia con il Comune di Milano.

La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:

a) in una precedente analoga controversia questa Corte, con sentenza 8 giugno 2004, n. 420, ha ritenuto che l’Accordo sindacale del 4 febbraio 2000 (recte: 2002), riguardante la costituzione del nuovo rapporto di lavoro con il G.G. succeduto alla P., non avesse vincolato i lavoratori alla stipulazione di un contratto con orario pari al 90% di quello applicato in precedenza ed ha, pertanto, affermato che, in mancanza di accettazione da parte dei lavoratori, al nuovo rapporto doveva applicarsi l’orario ordinario previgente;

b) nel caso di specie la sentenza di primo grado parte da una diversa impostazione – che va condivisa e che ha carattere assorbente – secondo cui, essendo stati i lavoratori assunti il giorno 1 febbraio 2002, con lettere indicanti le rispettive riduzioni di orario di lavoro ed avendo gli stessi manifestato il proprio dissenso rispetto a tale riduzione soltanto nel dicembre 2003 quando hanno dato inizio al presente giudizio, deve ritenersi che i rispettivi contratti si siano conclusi alle condizioni pacificamente attuate e, quindi, accettate dagli interessati;

c) né può valere in contrario la apposizione – in carattere stampatello – alle lettere di assunzione della generica espressione “con riserva” (quale risulta dalla lettera riguardante il S., prodotta in giudizio) perché non solo in essa non vi è alcuno specifico riferimento all’orario di lavoro, ma comunque la relativa formulazione, essendo avvenuta al momento della conclusione del contratto con il G.G., ha perso significato a fronte dell’accettazione tacita delle condizioni contrattuali “proposte” dalla società desumibile da! prolungato comportamento dei lavoratori attuativo di tali condizioni.

2. – Il ricorso di M.C., P.M., G.P. e S.S. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, il G.G. s.p.a.

Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.

Motivi della decisione

I – Sintesi dei motivi di ricorso

1. Il ricorso è articolato in quattro motivi, formulati in conformità con le prescrizioni di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis.

1.1 – Con il primo e il motivo si contesta – rispettivamente sotto il profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 5 del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 e degli artt. 1372 e 1326, quinto comma, cod. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) e del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, cod. proc. , civ.) – la decisione della Corte milanese di ritenere assorbente la questione della presuntivamente intervenuta accettazione tacita, per comportamenti concludenti degli attuali ricorrenti, della riduzione di orario imposta dal nuovo datore di lavoro (G.G.), pur dopo aver dato atto di aver risolto in modo opposto una precedente analoga controversia.

Si sottolinea, in particolare, che:

1) in base alle norme su richiamate, la trasformazione di un rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (quale prodottasi per G.P. e S.S.) così come la riduzione dell’orario di lavoro di un rapporto a tempo parziale (quale verificatasi per M.C., P.M.) richiedono l’espresso consenso scritto del lavoratore, risultante da atto convalidato dalla competente Direzione provinciale del lavoro;

2) il suddetto atto scritto non può essere sostituito da un comportamento di fatto del lavoratore di esecuzione del contratto con l’orario ridotto imposto dal datore di lavoro, tanto più ove questi abbia nella lettera di assunzione apposto la clausola “con riserva”, inevitabilmente riferibile all’orario di lavoro, essendo la relativa modifica l’unico elemento nuovo del contratto di lavoro sottoscritto;

3) viceversa, essendo l’accettazione dei lavoratori difforme dalla proposta, e, pertanto, equivalendo ad una nuova proposta, non solo è da escludere che si sia formato l’accordo sulla riduzione dell’orario, ma anzi, per effetto della avvenuta assunzione da parte del G.G. senza riserve sul punto, il contratto dovrebbe considerarsi concluso alle condizioni proposte dai lavoratori, tacitamente accettate dal datore di lavoro.

Si aggiunge che nella sentenza impugnata non vengono spiegate le ragioni che hanno portato la Corte territoriale ad attribuire al comportamento c.d. attuativo dei ricorrenti – cui gli stessi non potevano sottrarsi, pena la perdita del posto di lavoro – l’efficacia probante di un loro consenso alla riduzione dell’orario di lavoro, senza neppure prendere in considerazione le istanze istruttorie degli interessati, riproposte in appello.

1.2. – Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 3, lettera a), del CCNL per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di pulizia, in base al quale il datore di lavoro subentrato ad altra impresa in un appalto di pulizie è obbligato ad assumere i dipendenti della precedente appaltatrice “alle stesse condizioni precedentemente osservate e senza periodo di prova”.

1.3. – Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2077 cod. civ.

Si rileva che nella sentenza attualmente impugnata – diversamente da quanto avvenuto nella i precedente sentenza della medesima Corte di Milano n. 450 del 2004, ivi richiamata – il Giudice di appello non ha preso in considerazione l’Accordo sindacale del 4 febbraio 2002, peraltro intervenuto dopo la stipulazione dei contratti individuali di lavoro degli attuali ricorrenti (datati 1 febbraio 2002).

Tale Accordo contiene una clausola con la quale le Parti sociali hanno concordato che “i contratti di lavoro iniziali prevederanno un orario di lavoro settimanale individuale pari al 90% di quello precedentemente in atto”.

Tuttavia, essendo l’Accordo stesso successivo ai contratti individuali – come si è detto – è, comunque, da escludere che essa sia applicabile agli attuali ricorrenti, perché in base all’art. 2077 cod. civ. cit., un accordo sindacale stipulato in epoca successiva alla conclusione di un contratto ; individuale di lavoro, non può derogare in pejus al contenuto di quest’ultimo, senza un consenso espresso per iscritto dal lavoratore alla modificazione delle condizioni individualmente concordate con il datore di lavoro.

Il – Esame delle censure

2. – I primi due motivi di ricorso – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – sono da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.

3. – In base ad orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte:

a) è indubbio il carattere generale del principio per cui alla contrattazione collettiva non è consentito incidere, in relazione alla regola dell’intangibilità dei diritti quesiti, su posizioni già consolidate o su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori in assenza di uno specifico mandato od una successiva ratifica da parte degli stessi (vedi, fra le tante: Cass. 23 luglio 1994, n. 6845; Cass. 29 settembre 1998, n. 9734; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2362);

b) inoltre, la regola secondo cui i contratti o gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso dall’accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad un accordo sindacale separato e diverso, vedi: Cass. 28 maggio 2004, n. 10353; Cass. 18 aprile 2012, n. 6044) non vale nell’ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno in rapporto a tempo parziale ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000, in quanto tale trasformazione (seppure prevista da un contratto collettivo aziendale come strumento alternativo alla collocazione in mobilità) non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma necessita in ogni caso del consenso scritto del lavoratore, il cui rifiuto della trasformazione del rapporto non costituisce giustificato motivo di licenziamento (vedi, per tutte: Cass. 12 luglio 2006, n. 16169; Cass. 17 marzo 2003, n. 3898; Cass. 26 maggio 2000, n. 6903, quest’ultima con riguardo alla disciplina di cui all’art. 5, comma terzo, del d.l. n. 726 del 1984, convertito dalla legge n. 863 del 1984);

c) ne consegue che, nell’anzidetta ipotesi, non può applicarsi il principio secondo cui l’adesione degli interessati – iscritti o non iscritti alle associazioni stipulanti – ad un contratto o accordo collettivo può essere non solo esplicita, ma anche implicita, come accade quando possa desumersi da fatti concludenti, generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative clausole (vedi, fra le altre: Cass. 11 marzo 1987, n. 2525; Cass. 5 novembre 1990, n. 10581; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2362);

d) peraltro, il suindicato principio, laddove applicabile, comporta che, affinché un contratto o un accordo collettivo possa considerarsi implicitamente accettato dai lavoratori per “fatti concludenti” sia necessario che la manifestazione di volontà in tal senso desumibile dal comportamento degli interessati sia stata espressa in modo inequivocabile, giacché il principio della libertà di forma nell’esercizio dell’autonomia negoziale e collettiva consente che l’adesione ad un accordo sindacale si manifesti o con negozi attuativi o attraverso consequenziali condotte, purché si tratti di comportamenti – dall’indagine specifica che il giudice del merito deve compiere al riguardo, anche alla luce dei principi di correttezza e buona fede che devono sempre presiedere all’esecuzione delle obbligazioni – risultino diretti a dimostrare con certezza la volontà di ratificare l’accordo o il contratto in oggetto (Cass. 7 febbraio 2004, n. 2362; Cass. 13 giugno 2003, n. 9497; Cass. 2 aprile 2001, n. 4841, nonché arg. ex Cass. 12 giugno 2002, n. 8390 e Cass. 28 marzo 2001, n. 4570);

e) deve, quindi, trattarsi di una manifestazione di volontà che, per quanto implicita, sia genuina e libera, cioè non possa considerarsi tale da essere affetta da un vizio riconoscibile dalla controparte in applicazione dei canoni generali della correttezza e buona fede (vedi, a contrario: Cass. 18 novembre 1999, n. 12784) e comunque non risulti essere necessitata;

f) conseguentemente, il consenso tacito ad un mutamento contrattuale peggiorativo delle condizioni di lavoro (in particolare anche con riguardo all’orario), non può certamente essere desunto dal semplice fatto che i lavoratori, in costanza del rapporto di lavoro, non abbiano preteso l’adempimento del patto originario e abbiano continuato a prestare la loro opera a condizioni svantaggiate (Cass. 20 maggio 1977, n. 2111; Cass. 16 maggio 2006, n. 11432), potendo, un comportamento diverso, compromettere il rilevante e fondamentale interesse dei lavoratori ad evitare la perdita del posto di lavoro e, quindi, della retribuzione.

4. – La Corte d’appello di Milano, senza attenersi ai su riportati principi:

a) non ha considerato che la clausola dell’Accordo sindacale del 4 febbraio 2002 – che prevedeva una riduzione dell’orario di lavoro del 10%, rispetto a quello osservato nel rapporto con il precedente appaltatore – essendo peggiorativa delle condizioni di lavoro e retributive stabilite sia dal CCNL di settore, sia dai contratti individuali antecedenti avrebbe richiesto una chiara ed esplicita volontà dei lavoratori, manifestata per iscritto e nelle forme stabilite dalla legge;

b) inoltre ha attribuito il valore di “fatto concludente”, da cui desumere il consenso tacito dei lavoratori ad un elemento del tutto inidoneo a tal fine rappresentato dal fatto che essendo stati i lavoratori assunti il giorno 1 febbraio 2002, con lettere indicanti le rispettive riduzioni di orario di lavoro ed avendo gli stessi manifestato il proprio dissenso rispetto a tale riduzione soltanto nel dicembre 2003 quando hanno dato inizio al presente giudizio, conseguentemente i rispettivi contratti dovevano considerarsi siano conclusi alle condizioni “pacificamente” attuate e, quindi, accettate dagli interessati;

c) conseguentemente ha ritenuto che a fronte dell’accettazione tacita delle condizioni contrattuali “proposte” dalla società desumibile dal prolungato comportamento dei lavoratori attuativo di tali condizioni, perdesse significato la apposizione – in carattere stampatello – alle lettere di assunzione della generica espressione “con riserva”, essendo avvenuta precdentemente, cioè al momento della conclusione del contratto con il G.G.

5. – In tale ricostruzione la Corte milanese, non solo non ha fatto alcun riferimento all’art. 4, comma 3, lettera a), del CCNL per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di pulizia,che obbligava il datore di lavoro subentrato ad altra impresa in un appalto di pulizie ad assumere i dipendenti della precedente appaltatrice “alle stesse condizioni precedentemente osservate e senza periodo di prova”, ma neppure ha considerato la circostanza della anteriorità dei contratti individuali (sottoscritti il giorno 1 febbraio 2002) rispetto all’Accordo sindacale del 4 febbraio 2002, con le relative conseguenze in merito al divieto per il contratto o accordo collettivo di derogare in pejus al contenuto del contratto individuale, senza un consenso espresso per iscritto dal lavoratore alla modificazione delle condizioni individualmente concordate con il datore di lavoro.

A ciò consegue che, nella specie, il criterio dell’accettazione implicita risulta inapplicabile, diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata.

6. – Va, comunque, precisato – in ragione della funzione nomofilattica affidata dall’ordinamento a questa Corte di cassazione – che, comunque, l’applicabilità del suddetto criterio – ove possibile – presuppone una indagine specifica del giudice del merito, da effettuare anche alla luce dei principi di correttezza e buona fede che devono sempre presiedere all’esecuzione delle obbligazioni, che sia tale da dimostrare che i comportamenti “concludenti” siano diretti con certezza a manifestare la genuina volontà di ratificare l’accordo o il contratto collettivo di cui si tratta.

E, in tale indagine, si devono tenere nel debito conto la qualità dei lavoratori di cui si tratta, l’esistenza di una situazione psicologica di soggezione dei lavoratori medesimi rispetto al datore di lavoro e, quindi, parametrare a tali dati anche le modalità del dissenso eventualmente manifestato dagli interessati, così come i modi e i tempi di eventuali iniziative giudiziarie intraprese.

A tale ultimo proposito, va anche considerato che, pur in un ordinamento di civil law come il nostro, comunque il canone della prevedibilità delle decisioni – che non comporta l’immodificabilità della soluzione adottata – si deve considerare come un requisito fondamentale dell’esercizio della funzione giurisdizionale, posto a presidio della certezza del diritto, come tale tutelato sia direttamente dalla nostra Costituzione (spec. art. 3), sia, nei rispettivi ambiti dalla Corte di giustizia UE e dalla Corte di Strasburgo.

Ne consegue che, rispetto a plurimi gruppi omogenei di lavoratori, gli esiti dei diversi giudizi instaurati separatamente non possono considerarsi, di per sé, indifferenti rispetto alle iniziative assunte dagli interessati.

7. – Dalle anzidette considerazioni deriva l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, cui consegue l’assorbimento di tutti i restanti profili di censura.

IlI – Conclusioni

8. – In sintesi, i primi due motivi di ricorso devono essere accolti, per le ragioni dianzi esposte e con assorbimento degli altri motivi.

In relazione alle censure accolte, la sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:

1) “la regola secondo cui i contratti o gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso dall’accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad un accordo sindacale separato e diverso) non vale nell’ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno in rapporto a tempo parziale ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000, in quanto tale trasformazione (seppure prevista da un contratto collettivo aziendale come strumento alternativo alla collocazione in mobilità) non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma necessita in ogni caso del consenso scritto del lavoratore, il cui rifiuto della trasformazione del rapporto non costituisce giustificato motivo di licenziamento”;

2) “ne consegue che, nell’anzidetta ipotesi, non può applicarsi il principio secondo cui l’adesione degli interessati – iscritti o non iscritti alle associazioni stipulanti – ad un contratto o accordo collettivo può essere non solo esplicita, ma anche implicita, come accade quando possa desumersi da fatti concludenti, generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative clausole”.

P.Q.M.

Accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione.