Sindacalismo di base. Quale futuro?
Credo che la situazione contingente imponga ad ognuno di noi di sollevare la testa da sotto la sabbia per guardare in faccia la cruda realtà. I fatti più recenti ci avvertono che il padronato è deciso ad andare fino in fondo, per affermare in modo definitivo che il ruolo del sindacato in Italia può esistere solo in qualità di fiancheggiatore del capitale e del profitto.
Il problema è capire se esiste la condizione per elevare un argine a questo devastante obiettivo strategico. Se i Soggetti sindacali alternativi, nati tutti nello stesso solco negli ultimi tre o quattro lustri, possono verosimilmente dare voce al disagio della classe lavoratrice nei luoghi di lavoro ed a quanti nella società disprezzano profondamente il mondo così com’è, ma non hanno altri riferimenti a portata di mano.
Nello scenario attuale, il sindacalismo di base non è rassicurante, non ha una forte identità, è disarticolato, non fa gruppo. Oltretutto, non si accorge che in questo modo danneggia proprio quella causa che dovrebbe essere la ragione della sua esistenza, il valore dell’unità dei lavoratori, perché riflette tra loro la logica di appartenenza e la pratica del proselitismo concorrente.
Sembra quasi che il destino, dopo aver affidato ai Soggetti antagonisti il compito di rinnovare i ricorsi della storia nella vita dei popoli, ne abbia poi perso il controllo, se è vero che nei quasi vent’anni trascorsi sono stati allestiti tanti convogli, finiti tutti sul binario morto.
Contemporaneamente, il mondo cambiava senza farcene accorgere, se è vero che la risposta ai nuovi problemi sono i vecchi mestieri e gli eterni proclami. Arte antica con nuovi arnesi, come l’enfasi ad uso dei blog, che appaga il gusto, ma non accresce l’utenza; come l’agitazione dei simboli, che falsa il rapporto con la partecipazione di massa; come il concetto di democrazia, che soggiace alla disciplina di schieramento; come la convivenza tra pluralità culturali, che diventa impraticabile in un ambito tendenzialmente settario.
Un modello già vecchio, senza essere stato mai giovane. Passato e presente senza differenze, per niente attrattivo, soprattutto dei giovani che crescono in fretta a causa dei tempi moderni.
Il rischio è la chiusura in se stessi. L’abdicazione non dichiarata al ruolo di guida e riferimento della classe lavoratrice. La gestione dell’esistente, con una ricorrente riverniciata delle facciate. L’assuefazione a competere in una categoria minore, tra pari. Una gara in un cortile, mentre il campionato del mondo si gioca da tutt’altra parte.
Un modo, per dirla alla Mao, di guardare il dito che la indica invece della luna.
Siamo realisti. Il sindacalismo alternativo e di massa è finito in un vicolo cieco. Rischia di esaurire la sua storia senza lasciare traccia, perché non riesce a governare i fenomeni e fatica pure a starci dietro. Non ci riesce perché si muove al contrario, come se fosse governato da una legge della fisica per la quale le forze di uguale natura si respingono. Non riesce, così, a convogliare l’antagonismo naturale tra le classi, il vero carburante di una forza di rinnovamento, che si disperde in tanti rivoli e non diventerà mai una piena.
Così il conflitto, per mancanza di interpreti, nasce e muore nello stesso tempo, senza lasciare traccia e senza aggiungere nuovi anelli alla catena delle lotte. E mentre il sindacato di base continua a pattinare il mondo è già cambiato.
E’ cambiato intanto il pensiero prevalente nella fabbrica, la fede nella lotta quale mezzo di conquista o come metodo di autodifesa. Un cambiamento che ha portato a salari da fame, alla soppressione del diritto minimale del lavoro, alla mortificazione della persona umana. E’ venuta meno la rivendicazione, perché il “posto” è diventato la cosa da difendere ad ogni costo, prima della dignità, prima della giustizia, prima della morale. Il posto, anche quello precario, è diventato l’esigenza primaria che sottomette l’individuo alla gerarchia di tutti i poteri.
E’ cambiata la comunicazione, il confronto delle idee, la percezione dei fatti e la fiducia nei simboli. La fabbrica non è più il luogo dove fermenta la coscienza di classe, ma dove la scienza della contrapposizione disarticola l’armonia del gruppo. Una torre di Babele, nella quale viene corroso progressivamente il patrimonio genetico della vocazione operaia al progresso sociale attraverso la lotta.
E’ cambiata la politica, con la scomparsa del partito dei lavoratori e della sinistra in quanto tale, sponda naturale della rivendicazione, della domanda di equità sociale. Che nel confronto parlamentare si faceva portatrice del problemi dei meno protetti. Che nella formazione delle regole conteneva lo strapotere delle classi più agiate.
Il rapporto sindacato-partito era funzionale alla reciproca convenienza per la quale cresceva parallelamente la capacità di rappresentanza e la formazione del consenso.
Pensare che la storia possa continuare a correre su questo tandem significa essere politicamente miopi o, peggio, ideologicamente arroccati.
Il rapporto sindacato partiti non sarà mai più come prima. Non lo sarà per il semplice fatto che il sistema maggioritario ha fatto mutare pelle alla politica. Con il “bipolarismo” i blocchi contrapposti inglobano tutto, stessi programmi, stessi referenti, in perfetta analogia. Il consenso è condizionato dalla disponibilità di mezzi, strumenti, risorse……in fondo, di capitale. E’ inevitabile, quindi, che la domanda della classe operaia avrebbe un filtro in più, perdendo consistenza nel dibattito interno a partiti non tradizionali, che sono stati assemblati su principi interclassisti, ma subiscono l’influenza delle lobbies.
Nemmeno la capacità di mobilitazione sarà più come prima, perché sono stati indeboliti i centri vitali della cultura antagonista: la lotta di fabbrica, condizionata dal terrore di perdere il lavoro, dal ruolo politico del sindacato confederale, dalle strategie dell’impresa e dall’oggettiva contrazione del settore produttivo nel contesto occupazionale; la protesta di piazza, che canalizzava lo scontento sociale e mobilitava le masse, oggi condizionata dal potere mediatico e dalla caduta di fiducia nei rituali che registrano scarsa partecipazione e pochi effetti.
Non c’è una risposta di piazza nemmeno contro l’abolizione dei diritti, le stragi sul lavoro e l’elevazione indefinita dell’età pensionabile!
Per stare al passo, dunque, non basta più la fabbrica e la piazza. Bisogna ampliare il nostro orizzonte. Bisogna spostare il centro gravitazionale del nostro agire nei segmenti della società civile. Bisogna collegarsi al disagio delle famiglie, dei giovani, dei precari, dei migranti, dei disoccupati ed a quanti vivono in difficoltà, portandone la rappresentanza ed il peso nei luoghi delle decisioni per riequilibrare il rapporto tra i diritti delle persone e lo strapotere delle caste.
Significa dare voce all’altra Italia, a quella che non appare nei talk show, che non entra in rassegna stampa, non conquista le prime pagine. Quella che politicamente non rende, anzi, induce ipocritamente a girare la testa dall’altra parte.
In queste condizioni, un minimo di coerenza dovrebbe indurci a fare qualcosa e prima possibile. Apriamo il dibattito, offriamo disponibilità, individuiamo un percorso per un fine condiviso. Evitiamo però atteggiamenti cattedratici o di sufficienza, che sono sempre mal riposti e sicuramente da ostacolo a qualsiasi volontà di dialogo.
Intanto provo a fare una proposta io, conscio del fatto che mi accingo a percorrere uno spazio siderale tra compagni di viaggio non comunicanti tra loro.
A priori bisogna tenere conto di due aspetti. Il primo, è quello che nel breve termine è impensabile l’unificazione del fronte sindacale di base perché troppe sono le distanze dovute ad origini, storie e culture diverse. Gli stessi meccanismi di metodologia democratica interna sono profondamente differenti e difficilmente integrabili. Il secondo, è l’esigenza di mettere comunque in relazione l’impegno di tutti su un livello di fruibilità più alto, oltre le singole Organizzazioni, senza interferenze nella loro autonomia.
L’unità organica non è indispensabile. Non è necessario il raccordo strutturale, la comunanza delle risorse, la cessione di sovranità. Ognuno mantiene la propria identità, ognuno partecipa senza conferimento obbligato. Liberi di entrare ed uscire nell’area comune, senza pedaggi, senza gerarchie, senza vincoli.
Basta creare un livello superiore poggiato sulle colonne portanti costituite dalle singole Organizzazioni, che finalizzano il loro impegno politico nello stesso bacino sociale: Il MOVIMENTO.
Il Movimento dei Lavoratori, di classe, presente nei posti di lavoro, nelle piazze, nelle istituzioni ed in ogni luogo in cui si confrontano i diversi interessi.
Un movimento non velleitario, non generalista, non interdipendente, che abbia solo ed un unico fine: riportare l’essere umano al centro del sistema ed in esso garantire migliori condizioni di vita ai lavoratori ed alle fasce più deboli della società civile.
La storia dei movimenti in Italia non è esaltante per scarsa vocazione popolare, ma anche per diffidenza istintiva sulle iniziative riflesse della contrapposizione politica. Viceversa, un movimento che fosse solo spontaneo è destinato a scemare in parallelo con l’emozione che l’ha originato, per mancanza dei mezzi minimi di sussistenza.
Fermo restando la libertà d’azione di ogni singola Organizzazione, il movimento dei lavoratori non deve essere in relazione ai partiti, perché non avrebbe futuro. Nel sistema bipolare la mediazione politica avviene all’interno dei raggruppamenti e finisce per essere funzionale alla loro convenienza, non a quella delle masse. Il movimento dei lavoratori, invece, deve partecipare alla mediazione politica in proprio, senza filtri, senza intermediari, facendosi portatore del 100% della loro rappresentanza, oltre i partiti, nella società civile, nelle istituzioni e nei luoghi dove si formano gli equilibri che condizionano la vita del popolo.
Possiamo sfruttare il vantaggio della presenza sul territorio delle Strutture già organizzate. Le sedi sindacali possono diventare luoghi di incontro e di elaborazione politica di tutto il movimento, superando le barriere delle sigle di appartenenza. Possono diventare punto di aggregazione sociale e luogo di comunicazione diretta, utile antitodo all’informazione manovrata.
Può essere un modo per risvegliare le coscienze, per uscire dal torpore, per acquisire identità. Può essere la prova che forse il destino non ha sbagliato nell’affidare al sindacato antagonista il compito di rinnovare i ricorsi della storia.
Certo, non basta uno schiocco di dita, né una manifestazione di buona volontà. Serve intanto capire se l’idea può essere sviluppata, se è maturato il tempo del convincimento generale che da qualche parte bisogna pur ripartire.
Il quadro è tutto da riempire e sarebbe auspicabile un momento di confronto da organizzare a Roma già nel prossimo mese di ottobre.
Cordialmente.
Segreteria Regionale FlaicaLazio
Roma, 16/9/10.