Democrazia sindacale. Un interessante intervento

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RAPPRESENTATIVITA’ SINDACALE: NODO GORDIANO IRRISOLTO.

 

Si è conclusa da pochi giorni la vicenda legata all’accordo relativo allo stabilimento torinese di Mirafiori e, tanto questa, quanto quella connessa all’accordo sulla fabbrica di Pomigliano d’Arco ancora una volta appalesano la necessità, tanto più impellente vista l’evoluzione del sistema di relazioni industriali, di definire un quadro di regole minime entro cui i soggetti sociali possano svolgere il proprio ruolo.

 

Invero, la caotica situazione determinatasi in quest’ultimi anni è figlia di un “peccato

originale” della nostra Repubblica: la perdurante disapplicazione del dettato dell’art. 39

Cost. Tale norma voleva essere la risposta dei nostri padri Costituenti a due problemi fra

loro intimamente connessi: l’efficacia dei contratti collettivi stipulati dai sindacati e la

natura stessa delle organizzazioni sindacali. Nel regime fascista, il problema venne risolto

alla radice, riconoscendo alle organizzazioni sindacali natura pubblicistica: il sindacato era

soggetto di diritto pubblico, ragion per cui gli atti da esso stipulati erano di natura

pubblicistica ed estendevano ipso iure la propria efficacia erga omnes.

 

In epoca repubblicana, il primo nodo che ci si trovò ad affrontare fu proprio il

mantenimento o meno della natura pubblicistica delle organizzazioni sindacali. Rispetto a

questo argomento, non fu affatto scontata la scelta di considerare i sindacati come soggetti di diritto privato e quindi rappresentativi degli interessi dei propri iscritti, proprio perché tale scelta impediva al contratto collettivo sottoscritto da un sindacato di estendere la propria efficacia nei confronti di tutti i lavoratori del settore interessato1. In effetti, la scelta adottata dall’Assemblea Costituente, cristallizzata nell’attuale art. 39 Cost., non fu affatto di rottura rispetto al passato regime e fu, piuttosto, una scelta a metà strada fra

l’organizzazione sindacale pubblica e l’associazione sindacale privatistica: pur non

impedendo ai lavoratori la costituzione di sindacati come associazioni di diritto privato,

riconducibili dunque in toto alla disciplina dettata dall’art. 36 e ss. Cod. Civ., si previde che

solo attraverso la registrazione di un sindacato – e dunque mediante un atto di natura

pubblicistica – gli accordi collettivi da questo sottoscritti sarebbero stati efficaci erga

omnes.

 

Tralasciando i motivi storici per cui ciò è accaduto, resta il fatto che tale dettato è rimasto

sino ad oggi inapplicato, determinando i successivi problemi cui il legislatore non ha mai

definitivamente posto mano, in primis la necessità di chiarire quando un contratto

collettivo sottoscritto solo da alcune sigle sindacali possa spiegare i propri effetti nei

confronti di tutti i lavoratori da esso interessati. È a questo nodo che, indissolubilmente si

lega quello della rappresentatività, ossia dell’effettiva capacità «unificatrice del gruppo

 

1 Tra i sostenitori dell’opzione pubblicistica si ritrova, ad es., Costantino Mortati. L’eminente giurista, a proposito della

soluzione adottata dalla nostra Costituzione riteneva che, in tal modo, i sindacati venissero inquadrati fra i soggetti di

diritto pubblico; essi, difatti, sosteneva il Mortati, realizzano «fini di elevamento dei lavoratori appartenenti alla

categoria rappresentata dal sindacato, ma contemporaneamente fini direttamente statali, se è vero che tale

elevamento è un preciso obbligo attribuito alla Repubblica» (C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, ne IL DIRITTO DEL

LAVORO, vol. XXVIII, Roma, 1954, pag. 196)

 

professionale o almeno di rilevanti frazioni di esso»2 da parte di un soggetto sindacale,

come unico criterio utile a stabilire quali sigle sindacali abbiano la capacità di sottoscrivere

accordi collettivi con simili effetti.

Lasciando inapplicato il dettato costituzionale, l’evoluzione del sistema di relazioni

industriali si è così avviata su un percorso di fatto, extra legem, garantita peraltro da un

contesto di sostanziale unità sindacale, rappresentato dalla prevalenza, per non dire

dall’esclusività, del sistema confederale.

 

La prima risposta del legislatore alla questione della rappresentatività viene data all’interno

dello Statuto dei Lavoratori approvato, com’è noto, con la L. 20 maggio 1970 n. 300, più

specificatamente con l’art. 19. La norma, nella sua formulazione originaria, riconosceva a

tutti i lavoratori il diritto di costituire, all’interno di un luogo di lavoro, una Rappresentanza

Sindacale Aziendale (RSA), purché collegata a sindacati aderenti alle confederazioni

maggiormente rappresentative sul piano nazionale ovvero ad altre organizzazioni sindacali

firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nella singola unità

produttiva. In tal modo, riprendendo lo spirito dell’art. 39 Cost., se da un lato veniva

riconosciuta a tutti i lavoratori la facoltà di esercitare i diritti sindacali, dall’altro, in

un’ottica di promozione dell’attività sindacale organizzata – con un particolare occhio di

riguardo alla realtà confederale, all’epoca fortemente predominante –, si previde che

determinate funzioni potessero essere esercitate solo da alcuni sindacati.

 

Il concetto di rappresentatività così come si è venuto affermando, è stato progressivamente messo in crisi dall’emergere del sindacalismo autonomo e dal tramonto

dell’unità del sindacalismo confederale3. Il segnale più evidente di tale crisi è stato dato

dalla parziale vittoria referendaria del giugno ’95, con cui è stato cambiato il volto dell’art.

19, sancendo che Rappresentanze Sindacali Aziendali possono, ora, essere costituite da

tutte le organizzazioni sindacali firmatarie di un contratto collettivo di qualsiasi livello,

purché applicato nell’unità produttiva.

 

La crisi dell’unità del sindacalismo confederale, le cui prime crepe possono farsi risalire al

famoso accordo di San Valentino sulla scala mobile del febbraio ’84, sembra essere

definitivamente sancita, oggi, dalla sottoscrizione separata dell’Accordo sulla riforma del

modello contrattuale nel gennaio 2009, e quindi dagli ultimi due accordi relativi agli

stabilimenti Fiat di Pomigliano d’Arco e di Torino – Mirafiori.

 

Emerge, quindi, un contesto, in cui il sistema sindacale confederale non può più appellarsi a criteri di rappresentatività “presunta”, ed in cui il medesimo sistema non è più unito al suo interno, rendendo per questo improbabile il raggiungimento di accordi sostanzialmente

unanimitari come nel passato ed aprendo la strada ai c.d. accordi separati, in cui è il criterio

 

2 Così G. Giugni, Diritto Sindacale, Bari, 1997, pag. 89.

3 In proposito, T. Treu parla di «duplice “contestazione”, interna ed esterna» che «mette in discussione lo stesso

fondamento del giudizio di rappresentatività» (T. Treu, Statuto dei lavoratori, pubblicato sul sito internet

www.giuffre.it, sezione “Biblioteca”).

 

maggioritario ad emergere con forza. C’è da chiedersi se, in un momento di crisi economica così grave, ci si possa permettere un sistema di relazioni industriali in cui alla fisiologica conflittualità fra parti opposte, si è aggiunta quella interna alle stesse parti trattanti. Tutto ciò renderebbe necessario un intervento normativo che sancisca l’effettiva

rappresentatività dei soggetti firmatari dell’accordo e garantisca, al tempo stesso,

l’esercizio dei diritti sindacali per tutti gli attori in campo. Un buon esempio in questa

direzione è stato già dato dalla normativa sul pubblico impiego del ’93, con cui si è prevista

l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi firmati dalle organizzazioni sindacali che,

singolarmente ovvero in coalizione rappresentino, considerato il dato associativo ed il dato

elettivo, la maggioranza dei lavoratori interessati dall’accordo.

 

Appare quindi necessario che, come già nel passato, il legislatore ponga nuovamente mano alla questione, con un nuovo intervento dal contenuto essenziale, rispettoso

dell’autonomia delle parti sociali – e per questo eventualmente sussidiario rispetto alle

possibili determinazioni di queste ultime –, che prenda atto della situazione creatasi negli

ultimi anni, consentendo di stipulare degli accordi da parte dei sindacati di volta in volta

maggioritari ed effettivamente rappresentativi degli interessi dei lavoratori, garantendo

però a tutti gli altri non sottoscrittori di poter continuare ad esercitare i diritti e le libertà

sindacali. Tale riforma, peraltro, per essere davvero incisiva, dovrebbe contemplare non

solo una novella del testo dell’art. 19 Stat. Lav., ma riguardare altresì l’art. 39 Cost. per la

parte rimasta totalmente disapplicata.

 

Il fatto che in Parlamento siano stati depositati, da parti politiche diverse, progetti di legge

convergenti in tale direzione (si vedano la P.d.L. n. 1872, presentata dal Sen. Pietro Ichino

ed altri, denominata “Codice dei rapporti sindacali. Modifiche al Libro V del Codice Civile”4

ovvero la P.d.L. costituzionale n. 3672, presentata dall’On. Giuliano Cazzola ed altri,

denominata “Modifiche dell’art. 39 della Costituzione in materia di rappresentanza e di

rappresentatività delle organizzazioni sindacali”5) lascia sperare che il legislatore possa

finalmente risolvere in tempi ragionevolmente brevi quest’esigenza troppo a lungo lasciata

disattesa.

 

Matteo Ariano

Funzionario ispettivo presso la DPL di Venezia

 

* Ai sensi della circolare del MLPS del 18 marzo 2004, le considerazioni contenute nel presente scritto sono

frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per

l’Amministrazione di appartenenza.

4 Particolare interesse rivestono l’art. 2064, intitolato “Rappresentanze sindacali aziendali”, in cui alcuni diritti

sindacali sono riconosciuti in proporzione ai consensi ricevuti nell’ultima consultazione elettorale e l’art. 2071,

rubricato “Contratto collettivo con efficacia generale”, in cui si raccorda il nuovo sistema disegnato dalla P.d.L.

alla’auspicabile riforma dell’art. 39 Cost.

5 Molto interessante è la ricostruzione storica effettuata dal relatore, il quale ricorda come già nel 1960, il prof. Giugni

scrivesse: «Il diritto del lavoro vive, in Italia, da più di dieci anni in una condizione di attesa, di “speranze deluse”:

attesa della legge sindacale, che, con l’applicazione del dispositivo costituzionale, sciolga il nodo gordiano dei mille e

più problemi nascenti dalla vita quotidiana delle istituzioni collettive».